
Incontro con una donna guerriera
New York, 1981. Ho 22 anni, sono alla scoperta della Grande Mela e del mondo. Tutto mi interessa e mi incuriosisce, assorbo gli stimoli da ogni angolo della città, da ogni voce, da ogni suono, da ogni persona incontrata. Una percussionista, conosciuta casualmente, mi parla entusiasta di un prossimo incontro alla New York University. “Ci devi andare assolutamente! Devi conoscere quella donna!” Ok, ci vado.
La conferenza si tiene in una grande aula a gradinate, io sono straniera, un po’ timida, e mi siedo in fondo. La relatrice, Judith Gleason, è estremamente vitale, coinvolgente, animata. Parla delle sue esperienze in Mali, dei suoi incontri con le donne africane, della loro grande capacità di reagire a condizioni avverse, della loro solidarietà di gruppo. Mi immergo nel racconto e guardo le diapositive che si susseguono sullo schermo. Affascinata dal suo modo vivace di parlare mi lascio andare e comincio a fantasticare, e mi immagino in Africa, insieme a quella donna mai vista prima. Provo una strana sensazione, un misto tra dejavu e presentimento, un campanello che dal fondo del cervello mi avverte che sta succedendo qualcosa di importante.
Quel campanello l’ho sentito in altre due o tre occasioni, quando mi è capitato di vedere per la prima volta quelle che poi sarebbero diventate persone fondamentali nella mia vita. Così è stato il mio primo incontro con Judith. Otto anni dopo eravamo insieme in Nigeria, per girare un documentario sui rituali di iniziazione femminile nel Delta del Niger. Ma questa è un’altra storia.
Il sogno di Yemanjà
In quel periodo ero in una fase di ricerca esistenziale, volevo creare, scoprire il mondo e vivere esperienze forti. Il desiderio di conoscere mi spingeva ad andare sempre più lontano. La meta sognata in quel periodo era il Brasile: lì volevo andare a trovare Yemanjà, la dea del mare che avevo visto in chissà quale film. Volevo conoscere la religiosità afro-brasiliana, volevo raggiungere a tutti i costi quel luogo di magia. Judith, antropologa, scrittrice, esperta di letteratura africana, aveva fatto ricerche in vari paesi dell’Africa, ad Haiti e in Brasile. Subito si entusiasmò al mio progetto. Mi diede tutte le indicazioni per iniziare la ricerca: nomi, contatti, luoghi, delucidazioni sul Candomblé, chiavi di interpretazione, consigli sui regali da portare a questo o quello, messaggi da recapitare ai suoi conoscenti. Persino una mappa per raggiungere il terreiro (luogo di culto del candomblé) Ilê Axé Opô Aganju di PaiBalbino a Lauro de Freitas, presso Salvador. La mappa conteneva indicazioni strane del tipo “gira a sinistra dopo il grande albero”.
Naturalmente di grandi alberi ce n’erano moltissimi a Lauro de Freitas, ma in qualche modo, mesi dopo, riuscii a raggiungere il terreiro e a girare il mio primo documentario. Il film “Mother of the waters” (Madre delle acque) è un po’ frutto della curiosità, della mia passione per l’avventura e per la magia, ma soprattutto della generosità di Judith, che ha saputo darmi ispirazione, coraggio, e orientamento negli strani percorsi del destino.
una donna di grandi energie
Judith Gleason era una donna di grandi energie, di grande cultura, di grande impegno e di grande forza d’animo. Ha messo al mondo 5 figli, ha lavorato instancabilmente per tutta la vita, ha scritto libri fondamentali per la conoscenza della letteratura, della poesia e della tradizione orale africana, ha prodotto idee brillanti e ha guidato il cammino di molte persone come me. Poco prima di partire per il suo ultimo viaggio, continuava a percorrere a passo sostenuto le strade di New York, tenendo lezioni sui miti greci in classi di studenti stranieri, progettando e realizzando documentari sulle donne messicane, inseguendo storie, lottando per la sopravvivenza, e forse cercando quel riconoscimento pubblico definitivo che non le è mai arrivato.
Una donna che ha saputo coniugare la conoscenza dell’Africa e della diaspora africana nel Nuovo Mondo con un tratto stilistico del tutto personale, fuori dagli schemi, spesso in polemica con i grandi accademici. Il suo romanzo (purtroppo non tradotto in italiano) “La leggenda di Agotime”, sulla vicenda di una regina del Dahomey venduta come schiava in Brasile, è un capolavoro di interpretazione e documentazione della cultura dell’Africa occidentale e della storia dello schiavismo, narrato con una poesia e una visionarietà molto rare.
La dea del vento
Judith è stata una delle prime donne bianche (forse la prima) ad essere iniziata al culto della Santeria, nel Bronx: la sua competenza sulla religione afro-americana era molto profonda, vissuta in prima persona, sulla propria pelle. Molti altri libri di Judith Gleason meriterebbero di essere tradotti in italiano. Tra questi sicuramente “Oya – in praise of an African Goddess” (Oya – in lode ad una dea africana), sul culto di Oya, divinità Yoruba venerata anche in Brasile e a Cuba, patrona del vento, del fiume, del fulmine. Energia naturale allo stato puro, femminilità combattiva, guerriera.
Con Judith abbiamo fatto molti viaggi, in Nigeria, a Porto Rico, in Messico. Ognuno di questi viaggi ha rappresentato una trama a sé stante, una scoperta, un incontro ricco e creativo con mondi diversi e complessi, che insieme abbiamo cercato di interpretare e raccontare.
Molte cose ho imparato da Judith: il profondo rispetto per le culture, per le persone, per le storie individuali e collettive, il valore della narrazione e della memoria, l’importanza del percorso, di come arriviamo alle cose piuttosto che del risultato, il senso dell’avventura, del vivere ogni giorno alla ricerca di una relazione con il passato e con le forze che animano il mondo, la sacralità della natura. Posso dire che tutte le esperienze successive, i molti viaggi alla ricerca di un filo narrativo, di una angolatura per descrivere l’esperienza umana, hanno preso spunto da questi insegnamenti. Forse un giorno farò un documentario su di lei e sulla sua vita. Sicuramente ne varrà la pena.
